LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel processo a carico di 1) Gandola Mauro, nato a Johannesburg (Sud Africa) il 10 maggio 1958, dom. to ex art. 161 c.p.p. in Milano, viale Coni Zugna n. 29 presso la sede della Purolite International; 2) Belsten Edward, nato a Milano il 13 ottobre 1951, dom. to ex art. 161 c.p.p. in Milano, viale Coni Zugna n. 29 presso la sede della Purolite International; entrambi difesi dall'avv. Giuseppe Bianchi del Foro di Milano; Parte civile: Bona Francesco con l'avv. Roberto Piacentino del Foro di Torino. Rilevato che agli imputati era contestato in primo grado il reato di cui agli artt. 110, 640 c.p. e che all'esito del dibattimento il giudice monocratico del Tribunale di Alba con sentenza del 24 giugno 2004 li assolveva da tale addebito perche' il fatto non sussiste; Rilevato che avverso tale sentenza presentavano appello sia il difensore della parte civile Bona Francesco che il p.g. chiedendo il primo che venisse ritenuta la responsabilita' degli imputati per il reato ascritto e che venissero condannati al risarcimento di tutti i danni alla stessa derivati ed il secondo la condanna degli imputati per il reato loro contestato alle pene di legge; Rilevato che all'udienza del 31 maggio 2006 il p.g. ha ravvisato non applicabile l'immediata conversione dell'atto di appello del p.g. in ricorso in cassazione e la contestuale conversione dello stesso ricorso in appello ai sensi dell'art. 580 c.p.p., come riformulato dalla legge citata, per connessione con l'appello delle parti civili, ed ha chiesto che la Corte di appello pronunciasse ordinanza con cui dichiarasse rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 593 c.p.p. (cosi' come modificato dall'art. 1 legge 20 febbraio 2006, n. 46) e 10 della stessa legge per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione; Rilevato che la difesa della parte civile ha rilevato la procedibilita' dell'appello della p.c. nel regime transitorio e di conseguenza la procedibilita' dell'appello del p.g. sulla base della unicita' dei mezzi di impugnazione ed in subordine si e' associata all'eccezione di costituzionalita' sollevata dal p.g. per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. e la difesa degli imputati si e' opposta chiedendo dichiararsi inammissibile sia l'appello del p.g. ai sensi degli artt. 1 e 10 legge n. 46 del 2006 e sia l'appello della p.c. per il principio di tassativita' dei mezzi di impugnazione che non puo' essere interpretato in via estensiva; Osserva quanto segue 1. - E' necessario valutare la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal p.g. presso questa corte di appello degli artt. 593 c.p.p., come modificato dalla legge n. 46/2006, e dell'art. 10 commi primo, secondo e terzo della stessa legge. 2.1. - La voluntas legis e' indubbiamente nel senso di precludere in ogni caso all'accusa (p.m. o p.g.) la facolta' di proporre appello avverso sentenza di proscioglimento, salva l'ipotesi che la stessa nell'atto di appello abbia richiesto l'assunzione di una nuova prova sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado che il giudice reputi decisiva (ipotesi quest'ultima che non ricorre nel caso di specie). Non e' sostenibile la tesi che l'appello proposto dall'accusa contro la sentenza di assoluzione emessa in primo grado, siccome inammissibile a mente dell'art. 10 secondo comma legge citata, debba automaticamente essere convertito in ricorso per cassazione, salvo poi convertirlo di nuovo in appello ex art. 580 c.p.p., avendo constatato a questo punto che contro la stessa sentenza possono dirsi proposti dei mezzi di impugnazione tra loro diversi e che e' ravvisabile la connessione di cui all'art. 12 c.p.p. tra i singoli mezzi di impugnazione. 2.2. - La chiarezza della voluntas legis richiede preliminarmente di interpretare la norma transitoria dell'art. 10 secondo comma della legge citata laddove prescrive al giudice, avanti il quale pende l'appello in seguito all'impugnazione proposta dal p.g. prima dell'entrata in vigore della stessa legge, di emettere ordinanza non impugnabile con la quale dichiarare l'inammissibilita' dell'appello stesso; impone inoltre di definire la portata e l'ambito di applicazione della norma dell'art. 10, terzo comma della stessa legge che prevede che entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore della nuova normativa puo' essere proposto ricorso per cassazione contro le sentenze di primo grado; non esclude che si debba, da ultimo, definire anche l'applicabilita' alla presente fattispecie della disposizione dell'art. 580 c.p.p. 2.3. - La corte e' dell'avviso che l'appello proposto ex art. 593 c.p.p. debba essere considerato inammissibile in forza dell'art. 10, secondo comma legge citata. Non si condivide la tesi che fa leva sopra il poco convincente argomento che non e' necessaria un'espressa manifestazione di volonta' dell'accusa di proporre ricorso per cassazione nelle forme prescritte perche' tale volonta' si puo' presumere dalla lettura dei motivi svolti nell'atto di appello che, secondo l'assunto che si commenta, si deve considerare inammissibile. Non si puo' infatti dedurre, senza incorrere in una forzatura ermeneutica, che l'appello proposto dal p.g. nei confronti degli attuali imputati in virtu' della declaranda inammissibilita' si deve intendere convertito automaticamente in ricorso in cassazione e si deve, infine, ritenere di nuovo convertito in appello in forza della disposizione dell'art. 580 c.p.p., stante la sussistenza della connessione ex art. 12 della posizione degli stessi imputati con quella delle parti civili i cui difensori hanno proposto appello avverso la sentenza di assoluzione emessa in primo grado. L'interpretazione ora enunciata, oltre che assai macchinosa e, per la verita', poco lineare, e' palesemente fuorviante. Essa presuppone infatti che, in forza della norma dell'art. 10, secondo comma legge citata, l'appello presentato dal p.g. avverso l'assoluzione degli imputati debba, almeno in una prima fase, essere considerato inammissibile e che questa constatazione dia, quindi, causa alla non breve serie di conseguenze prima riepilogata. Presuppone, pertanto, che la norma ora richiamata sia esente da profili di illegittimita' costituzionale e debba per questo motivo essere applicata riconoscendo virtualmente l'inammissibilita' dell'appello, salva la concatenazione delle successive inferenze di cui si e' detto che conduce, infine, ad un esito paradossalmente del tutto opposto, cioe' all'ammissibilita' dell'appello per effetto di una duplice conversione. Il presupposto da cui prende avvio il ragionamento criticato, in realta', non e' corretto. Occorre osservare che la sola esposizione della tesi che si commenta e' sufficiente a porre in risalto che la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal p.g. presso questa corte di appello, riposando sopra l'assunto che le norme impugnate sono m contrasto con le disposizioni degli artt. 3 e 111 della carta costituzionale, e' chiaramente rilevante, perche', se ritenuta non manifestamente infondata, e' suscettibile di tradursi nell'affermazione dell'incostituzionalita' delle richiamate disposizioni di diritto transitorio; sicche' dunque permetterebbe di argomentare, con specifico riferimento al caso che interessa, che, tra le altre conseguenze della pretesa illegittimita' costituzionale, non e' consentita la successiva conversione dell'appello inammissibile in ricorso per cassazione e, per effetto di un passaggio ulteriore, di nuovo la sua conversione in appello. E' innegabile che la tesi esposta urta contro l'osservazione che la norma dell'art. 580 c.p.p. contempla l'ipotesi che avverso la stessa sentenza siano proposti dei diversi mezzi di impugnazione, mentre invece nel caso di cui ora ci si occupa sono stati proposti dalle parti solamente dei distinti atti di appello - uno dei quali deve essere dichiarato inammissibile a mente dell'art. 10 secondo comma legge citata - e non dei diversi mezzi di impugnazione; che urta, inoltre, contro il rilievo che il p.g. non ha manifestato espressamente la volonta' che l'appello deve ritenersi convertito in ricorso per cassazione per l'eventualita' che esso debba essere considerato inammissibile; che urta, da ultimo, contro la considerazione, sarebbe per cio' stesso superfluo esplorare la possibilita' della duplice conversione sopra prospettata. E' quindi a questo punto necessario affrontare il quesito che impone di stabilire se la questione di legittimita' costituzionale che il p.g. ha sottoposto all'attenzione della corte di appello sia, o non sia, manifestamente infondata, poiche' e' indubbia la rilevanza della predetta questione nel presente giudizio. 3.1. - La questione di legittimita' costituzionale intorno alla quale verte la richiesta formulata dal p.g. non puo' essere giudicata manifestamente infondata. La Carta costituzionale specifica i principi generali ai quali si deve adeguare la normativa processuale. Prescrive dunque, con il menzionato art. 111, secondo comma, che ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo ed imparziale. Soggiunge, inoltre, che la legge ne assicura la ragionevole durata. 3.2. - Costituisce quindi un necessano corollario dell'enunciazione sopra riportata, in quanto la condizione di parita' costituisce uno dei principi che ispirano il giusto processo, che tale condizione deve essere assicurata con rigore, poiche' si deve ritenere che la tutela dell'accennata condizione di parita' realizzi il perseguimento di un valore a cui e' riconosciuto rango costituzionale. Occorre dunque risolvere obbligatoriamente, a questo punto, il quesito che impone di chiarire se, in quanto all'imputato spetta il diritto di appellare la sentenza di condanna, la correlativa possibilita' per l'organo del p.m. di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione rappresenta un modo non rinunciabile attraverso il quale la predetta condizione di parita' deve immancabilmente trovare concreta attuazione. La corte di appello reputa di dare al quesito una disposta affermativa. E' vero che si e' autorevolmente osservato che l'attuazione della condizione di parita' deve avvenire nel processo, mediante il mezzo costituito dal contraddittorio delle parti, e no attraverso l'attribuzione al p.m. di una facolta' di impugnazione altrettanto estesa quanto quella che spetta all'imputato avverso le sentenza di condanna. Tuttavia l'argomento addotto non e' decisivo. Appare invece conforme alla portata che deve essere riconosciuta alla ricordata condizione di parita' ed alla finalita' di non vulnerare, appunto, la tutela dell'interesse costituzionale a quale essa e' preordinata, osservare che non si puo' aderire ad un'accezione cosi' angusta del dettato dell'art. 111, secondo comma della Costituzione senza che, in realta', venga pregiudicato un aspetto essenziale della stessa parita' che il legislatore costituzionale vuole che sia invece garantita senza riserve o eccezioni. 3.3. - Aderendo all'opinione contraria, sarebbe gravemente alterata la regolarita' del processo penale. In esso, infatti, si devono confrontare le ragioni di parti che, in quante sono depositarie di interessi contrastanti che la Costituzione tutela attribuendo loro una pari rilevanza, non possono essere poste in posizioni di cosi' accentuata ineguaglianza di trattamento quale quella che deriva dalla previsione di inammissibilita' dell'appello del p.m. contro le sentenze di assoluzione. Occorre invero rilevare che nel processo il p.m. esercita la pretesa dello Stato alla punizione del colpevole che, a sua volta, deve essere messa in relazione con il principio costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 della Costituzione. Orbene, mentre l'imputato con la modifica della normativa della cui legittimita' costituzionale ora si controverte rimane titolare ad ogni effetto del potere di impugnare la sentenza di condanna a garanzia della pretesa di essere ritenuto innocente, il p.m. viene invece privato di un mezzo di primaria importanza al fine di ottenere che venga affermata nel processo la pretesa dello Stato alla punizione del colpevole, sebbene anche questa pretesa goda di una tutela costituzionale che e' di grado non minore di quella che viene riconosciuta all'opposto interesse dell'imputato. La disparita' di trattamento che ne deriva si pone percio' in contrasto con l'art. 111, secondo comma della Costituzione nella parte in cui prevede che il processo si svolga in condizione di parita' tra le parti, cioe' in una condizione di diritto che assicuri a ciascun parte processuale eguali mezzi per raggiungere le finalita' che ad ognuna di esse spetta di perseguire. 3.4. - Non rileva che la normativa di cui si discute riduca anche i casi in cui le sentenze di proscioglimento possono essere appellate dall'imputato poiche' esclude dall'appello le sentenze di proscioglimento pronunciate perche' il fatto non costituisce reato, o perche' non e' punibile o perche' non e' procedibile. E' infatti innegabile che la riduzione dell facolta' dell'imputato di appellare in tal modo operata non bilancia l'esclusione in toto del potere del p.m. di appellare qualunque sentenza di proscioglimento. Non rileva nemmeno che altre disposizioni in materia processuale abbiano in passato limitato la facolta' del p.m. di proporre impugnazione e che, in particolare, l'art. 443, terzo comma c.p.p. abbia escluso la facolta' del p.m. di appellare la sentenza di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato. Infatti la Corte costituzionale ha ritenuto con l'ordinanza n. 421/2001 che detta ultima limitazione non fosse in contrasto con i principi stabiliti nell'art. 111 della Costituzione con motivazione che non puo' essere estesa al caso in esame. E' noto che, con tale pronuncia, ha precisato che la Costituzione, mentre prevede la parita' delle parti nel processo, non attribuisce necessariamente a queste identiche facolta' nel processo. Tuttavia e' necessario soggiungere che l'ordinanza citata ha confermato, nell'occasione, che una disparita' di trattamento puo' essere ragionevolmente giustificata quando siano contemporaneamente preservate la speciale posizione del p.m. e dell'imputato e le esigenze che sono connesse con la corretta amministrazione della giustizia. Infatti ha chiarito che l'esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo trova attuazione nel giudizio abbreviato, poiche' questo giudizio consente di utilizzare senza procedere al filtro del dibattimento il materiale di prova acquisito dal p.m. nelle indagini preliminari. Conseguentemente la rinuncia da parte dell'imputato al contraddittorio nell'assunzione delle prove giustifica, alla stregua di quanto ha ritenuto il giudice delle leggi, la disposizione dell'art. 443, terzo comma c.p.p. che, in ossequio all'esigenza di bilanciare divergenti interessi, esclude che il p.m. possa appellare la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato. Nel caso in esame, per contro, l'esclusione della facolta' del p.m. di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento non trova nessun corrispettivo in un correlativo atto compiuto dall'imputato che abbia l'effetto di contribuire alla ragionevole durata del processo. L'esclusione della facolta' di appellare in questo caso non trova, pertanto, giustificazione ed appare quindi manifestamente irragionevole, cosi' violando il disposto dell'art. 3 della Costituzione. 3.5. - Un distinto profilo sotto il quale la normativa esaminata appare causa di una possibile illegittimita' costituzionale deve essere ricercato nella disparita' di trattamento che viene introdotta tra il p.m. e la parte civile. Pare infatti che a quest'ultima parte, attraverso la soppressione nell'art. 576, primo comma c.p.p. dell'inciso con il mezzo previsto per il pubblico ministero, sia stato mantenuto il potere di appellare, come si evince dal rilievo che non e' stata modificata la disposizione dell'art. 75 c.p.p. che prevede il trasferimento dell'azione civile dal processo civile a quello penale. Si perviene in tal modo all'assurda conseguenza che alla parte civile, malgrado persegua degli interessi eminentemente privati, e' garantito un potere di appello che viene invece sottratto all'accusa, sebbene questo sia titolare della pretesa punitiva dello Stato, cioe' di una pretesa che certamente non e' di minore rilievo ai fini del corretto perseguimento dei principi del giusto processo. 3.6. - All'opposto di quanto si potrebbe pensare sulla base di un esame superficiale, anche il principio della ragionevole durata del processo viene leso dalla norma di cui si eccepisce l'illegittimita' costituzionale. Infatti, solo in apparenza essa si traduce nell'eliminazione di un grado di giudizio nei casi in cui, secondo la disposizione che e' stata modificata, il p.m. poteva presentare appello avverso la sentenza di proscioglimento. Nella realta', invece, e' stata prevista una disciplina eccessivamente complessa in forza della quale la Corte di cassazione e' chiamata a valutare, a norma dell'art. 606, lett. e), c.p.p., la mancanza, la contraddittorieta' o la manifesta illogicita' della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame. Non e' fuori luogo osservare che l'estensione del sindacato della Corte di cassazione alla conformita' al fatto della motivazione della sentenza di proscioglimento, mentre altera la natura del giudizio di legittimita' che viene cosi' dilatato incongruamente fino a valutare il fatto con stravolgimento della funzione della Corte di legittimita', per altro verso costituisce un'innovazione che puo' comportare un tale aggravio dei tempi del processo da concretare una lesione del principio della ragionevole durata. E', in altre parole, ragionevole pensare che dall'estensione del sindacato della Corte di legittimita' discendera' nell'applicazione concreta, quale prevedibile conseguenza, una dilatazione dei tempi del processo, cosi' causando una distinta lesione ad uno dei principi del giusto processo che sono tutelati dall'art. 141, secondo comma della Costituzione. La questione di legittimita' costituzionale non e', pertanto, manifestamente infondata e deve dunque essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.